Tratto dagli scritti di Antonino Gnolfo “Monte di Procida antica Miseno” (Valtrend, Pozzuoli 2003), questo scritto ripercorre la storia di Monte di Procida dalle sue origini all’autonomia comunale, avvenuta il 27 gennaio 1907.
1. Civiltà protoitalica e italiota
Quando, nel terzo millennio a.C., la civiltà sicana-mediterranea volse al tramonto, in oriente sorgevano gli imperi dei Sumeri e degli Egizi. L’Italia quindi veniva invasa, a varie ondate, da popoli indo-europei. Gli Opici costruirono diversi villaggi nei Campi Flegrei, dei quali uno presso l’attuale Cappella e un altro, forse sul Monte; essi ebbero il loro centro politico in Cuma. Agli stabilimenti commerciali creati nei Campi Flegrei da naviganti egei, verso il IX secolo a.C. fece seguito una vera e propria corrente migratoria di famiglie greche, che col passare degli anni, si fusero con la gente del luogo, creando la nuova civiltà italiota, lievito per un rapido sviluppo sociale e civile. La stessa Roma adottò l’alfabeto e la monetazione di Cuma e si ispirò alla sua legislazione, alla sua filosofia, ai suoi culti. Cuma fu dunque maestra di civiltà e potente ma la base del suo splendore fu Miseno col suo porto e col Monte. Il porto misenate, col suo duplice bacino, costituì per la navigazione a remi nel Tirreno il rifugio più sicuro e più comodo e conferì allo Stato Cumano una funzione economica e militare di prim’ordine. Il Monte, dominando l’unica via marittima seguita dalle antiche navi a remi, consentì alla Repubblica Cumana il monopolio del commercio dei metalli, che si svolgeva tra la Toscana ed il vicino Oriente. La fertilità del suolo infine fece di Cuma e Miseno il mercato granario più vicino e conveniente per Roma.

Con l’inizio dell’Evo antico abbiamo i primi documenti storici sulla vita del Monte. Il De Jorio nella “Guida di Pozzuoli”, parlando delle “antiche costruzioni... magnifiche” esistenti nella parte settentrionale ed in quella meridionale della collina Montese, concluse: “si son rinvenuti a molta distanza da Cuma, sul più alto delle colline, delle tombe, e quel ch’è più eleganti ipogei incavati nel tufo. Il fatto dimostra che gli antichi, si Greci che Romani, avevano come noi le loro edicole rurali con familiari sepolcreti adiacenti nelle loro case di delizie”.
2 Dalla romanità al cristianesimo
L’importanza di Miseno, del suo porto e del Monte crebbero definitivamente, quando i Romani, sconfitti Etruschi, Sanniti e Cartaginesi costituirono a Maremorto la base navale del Tirreno. Miseno divenne “Municipium”. Vi furono costituiti collegi sacerdotali ed eretti templi, di cui uno a Torre di Cappella, dedicato a Minerva; vi furono aperte terme pubbliche e un teatro con cavea addossata alle pendici orientali del Monte; fu istituito anche un campo per esercitazioni dei marinai a Miliscola. Ville patrizie ed imperiali sorsero a Torregaveta, sopra Gaveta, presso Le Croci, a Monte Grillo ed in altri siti panoramici. L’agro misenate, col suo porto e il Monte presto divennero il centro politico dell’Impero, Baia diveniva la “pusilla Roma” della società mondana, mentre Cuma iniziava ormai il suo declino.

3 Il Castrum
Dopo la caduta dell’impero romano, Miseno costituì, nell’ambito del ducato di Napoli, una contea, dalla quale dipendeva anche Procida. Gli storici la chiamarono Castrum. Fortini sorgevano sul Monte: a Torregaveta, Gaveta, S. Martino, Torrione e forse a Monte Grillo. Completavano la cintura fortificata la torre del capo di Miseno e Torre di Cappella. Nel XII secolo, il fortilizio del Monte lo troviamo denominato “Castrum Sancti Martini”, dal nome di una locale chiesa, che sorgeva sul declivio occidentale. Longobardi e Pontefici, Bizantini e Arabi si contesero il possesso del “Castrum” Montese, il quale secondo alcuni autori, appartenne, di fatto, alla Chiesa, prima ancora che lo Stato Pontificio assumesse esistenza giuridica.
4 Invasioni barbariche
Le continue guerre tra Eruli ed Ostrogoti, Bizantini e Longobardi, le ripetute invasioni e devastazioni fiaccarono lentamente la vita nella città e sull’acropoli di Miseno, che fu ridotta ad un cumulo di rovine. Le poche famiglie rimaste sul Monte per le loro necessità religiose e civili dovettero rivolgersi alla vicina isola e ne seguirono le sorti fino al 1907. Il Monte, seguendo le sorti di Procida, alla quale venne collegato amministrativamente, ebbe come primo feudatario Giovanni da Procida: un medico salernitano, investito nell’VIII secolo della baronia omonima dal re di Sicilia.

5 La Rinascita
Il XIV secolo segnò l’inizio del rifiorire della vita sul Monte, per il flusso di popolazione da Procida, a causa delle terribili incursioni, operate da pirati arabi e turchi, i quali misero a ferro e fuoco l’isola. Poiché la rinascente borgata Montese godeva di speciale “franchigia doganale”, i generi di più largo consumo, come pane, farina, grano, vino costavano di meno che nei vicini paesi campani. L’incremento demografico crescente portò all’ampliamento della chiesa, cui venne aggiunta nel 1742 una seconda navata.

6 Il Prezzo della libertà
Il rifiorire della vita sul Monte attirò l’interesse del fisco e del comune di Pozzuoli; ma la curia arcivescovile di Napoli rivendicò i propri diritti sui terreni che vi possedeva. Accusati di contrabbando in danno alle finanze puteolane, i Montesi dovettero sostenere secolari lotte per conservare la propria indipendenza e salvarsi dalle mire annessionistiche.
7 La Repubblica Partenopea
Tra liti e giudici la vita del Monte si sviluppava per la laboriosità dei suoi cittadini, quando la ventata rinnovatrice della rivoluzione francese, spazzava via anche da Napoli i residui del feudalesimo medievale. Giacobini, cioè favorevoli al nuovo ordine repubblicano, furono i Montesi. Una batteria di cannoni fu piazzata for ‘atorr per battere Procida, che era stata occupata dalla flotta inglese; e nelle acque Montesi, presso la secca del Torrione, la marina della repubblica partenopea, inferiore per numero, riuscì a contrastare il passo alle navi nemiche. A metà giugno del 1799, la repubblica partenopea, assalita da Inglesi e Turchi, da Toscani e Romani, da Russi e lazzari, cadeva. Napoli allora tornava ai Borbone. I Montesi, nel periodo della repubblica, avevano avuto anche essi l’albero della libertà: un olmo che sorgeva dinanzi alla chiesa dell’Assunta. Dopo il ritorno dei Borbone veniva impiccato a quell’albero un contadino Montese: Stefano Coppola, il cui nome si trova scritto sulla lapide commemorativa eretta a Procida, in Piazza dei Martiri.
8 Dalla restaurazione borbonica all’autonomia
All’agro Montese si ricollega la fine del decennio francese nel regno di Napoli. Nella notte tra il 4 ed il 5 settembre alcune navi borboniche incrociavano nelle acque Montesi, per seguire Francesco II a Gaeta; ma i comandanti non vollero obbedirgli e preferirono portare il loro contributo alla causa dell’Unità. Alla fuga di Francesco II fece seguito nei Campi Flegrei la proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia. La nuova monarchia dei Savoia tradì però le aspettative della povera gente e dei lavoratori in generale. Il 17 luglio anche i Montesi manifestarono il loro scontento e, per sedare i tumulti, si rese necessario l’intervento dei soldati. Intanto la popolazione cresceva. Dal centinaio di abitanti del medioevo era passata a mille anime nel 1776, a 3665 nel 1881, a 4000 nel 1893. Venne creata la rotabile per Torregaveta, aperta una farmacia, istituita la scuola; si ebbe l’assenso per il telegrafo e per la posta. Allora, agli inizi del 1900, i Montesi chiesero al governo di potersi reggere a comune autonomo. Le giuste aspirazioni dei nostri padri venivano però ostacolate dalla casta di Procida, che dal Monte traeva sostanziosi privilegi. I Montesi volevano dare al nuovo comune il nome di “Nuova Cuma”, ma dovettero rinunciarvi per l’opposizione del consiglio comunale di Procida e dovettero accettare l’attuale denominazione di “Monte di Procida”. Il 27 gennaio 1907 ufficialmente il Monte veniva elevato al rango di comune autonomo.

9 Ludovico Quandel e l’autonomia
Patriarca dell’autonomia amministrativa di Monte di Procida e valoroso ufficiale dell’esercito del Regno delle Due Sicilie, tra i protagonisti dell’assedio di Gaeta gli fu conferita la croce di Cavaliere di Merito dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio. Il Quandel dopo la prigionia e la scarcerazione considerato il valore militare fu invitato ad entrare nell’esercito del Regno d’Italia ma preferì ritirarsi a vita privata a Monte di Procida, dove fu il principale artefice dell’autonomia amministrativa del comune flegreo avvenuta nel 1907. Non volle mai concorrere alla carica di Sindaco del neonato Comune per non giurare fedeltà alla nuova monarchia sabauda.
